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Perché essere solidali

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Tre volte padre, due volte nonno; eppure solo questa volta, la seconda, ho percepito qualcosa di diverso, anzi di essenziale. Tenendo in braccio quella frugoletta di mia nipotina di appena 5 giorni, ho toccato, come mai prima di allora, che cosa sia la fragilità umana. Come si nasce, ci si appella agli altri, a tantissimi altri, per tutto ciò che ci serve per stare in questo mondo: cibo, calore, riparo, indumenti; ma prima ancora, medici e infermieri, tecnici di sala operatoria, fino ai meccanici e ingegneri che hanno costruito l’automobile con cui il genitore ci porta a casa per la prima volta. L’elenco è lungo, passando per il farmacista e per i chimici di laboratorio che hanno preparato le nostre prime medicine e gli stessi oggetti che usiamo per succhiare. Nulla di simile nel regno animale. Mi vengono in mente i pulcini che, al primo tocco del suolo fuori dal guscio, sono già autonomi. Ecco una prima immensa differenza: tra i viventi, uno – noi – nasce nel bisogno, nel massimo del bisogno, quasi invocando, attraverso il pianto, che in tanti siano lì attorno a lui perché altrimenti non ce la farebbe.

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La fragilità, questo marchio di appartenenza al genere umano che ci segna indelebilmente fino all’ultimo respiro: ci siamo, esistiamo, viviamo se e solo se molti stanno attorno a noi.

Ma non è un semplice stare lì, quasi osservando come spettatori quell’esserino che si dimena per affermare il suo posto nel Pianeta. No, chi ci sta attorno deve assumere un ben definito atteggiamento, che i latini chiamavano cura. Noi possiamo garantirci un posto tra i viventi solo perché siamo oggetto di cura da parte di infinite persone: alcune in modo diretto, come i genitori e il parentado più prossimo; altre, tantissime altre, in forma indiretta, mediata.

Quindi il primo farmaco della fragilità è la cura e questa è possibile solo perché gli altri sono prossimi, cioè vicini: ecco la genesi della solidarietà.

La solidarietà è una necessità ontologica, cioè è qualcosa di connaturato con la nostra natura, con la nostra essenza. Per indicare questa connaturalità necessaria, Platone usa il termine “syn-genès”, cioè “della stessa origine”. L’atto della nascita trascina con sé il tratto fondamentale della solidarietà. Nei secoli è stato più volte tentato, da parte di scuole di pensiero di vario genere, di fondare o di demolire il concetto di solidarietà, affermando che l’uomo nasce individualista ed egoista, oppure il contrario. Io ritengo, invece, che basti la semplice e onesta osservazione di come avvenga l’atto di nascita per capire e convincersi che, come detto, la solidarietà è una esigenza costitutiva dell’essere umano, senza la quale questo essere non potrebbe nemmeno vedere la luce.

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Ma, allora, perché tanta aggressività, tanto individualismo, tanta ostilità fino alla forma più deleteria e disumana che è la guerra?

Le ragioni vanno ricercate, ovviamente, nelle singole storie e nelle diverse vicende, sia personali che sociali, che hanno caratterizzato e continuano a segnare i numerosi episodi, passati e contemporanei, in cui di fatto domina l’homo homini lupus. Da parte mia, mi limito a indicarne una, che spesso non viene nemmanco considerata perché non è appariscente né rumorosa: la mancanza di autoconsapevolezza.

Siamo talmente abituati a dare per ovvie infinite situazioni che le riteniamo non solo dovute, ma perfino banali. Chi mai prende coscienza del fatto che è a questo mondo perché molti altri hanno concorso al suo esserci? Chi, ad un certo punto del suo viaggio su questo Pianeta, si accorge dei tantissimi compagni di viaggio che gli rendono possibile il suo stesso viaggiare? Chi si rendo conto che il viaggio della e nella vita non è scontato come quando paghiamo il biglietto ferroviario e perciò stesso vantiamo il diritto di arrivare a destinazione? Soprattutto, che cosa fa sì che gli altri si prendano cura di noi? Una qualche forma di interesse? Un obbligo? Un istinto? Un “così fan tutti”?

Per il momento, poco conta quale sia la risposta che ciascuno si sente di dare a questi interrogativi. Ciò che conta, e conta assai, è porsi questo interrogativo, senza il quale il vivere non è umano, ma pre o sub umano.

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La filosofia si è posta questa domanda nella forma seguente, aulica e impegnativa, ma, per chi volesse riflettere, del tutto chiara e diretta: perché c’è l’essere anziché il nulla?

La risposta non è meno impegnativa della domanda e, soprattutto, non scorre a fior di pelle, ma penetra e sconquassa le fibre più recondite: c’è l’essere perché non può che essere così.

Il solo azzardare di pensare che l’essere non sia, è la forma più tetra di nichilismo.

Il solo pensare che tra i viventi non debba esserci solidarietà è il più penoso e invivibile dei deserti possibili.

Lino Sartori | Filosofo


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