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Filosofeggiando rubrica del prof. Lino Sartori

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In principio? La struttura.

È presente nelle culture antiche delle varie parti del mondo la ricerca di qualcosa che unifichi ciò che si vede, ciò che si conosce, ciò che si sente. Ma lo è anche nell’esperienza di ciascun essere umano fin dalla prima infanzia: capire dove sta il bandolo della matassa che abbiamo in mano. Così io ho sempre inteso la voglia dei bambini di rompere il giocattolo, non per il gusto di danneggiarlo, ma per capire come e che cosa dentro funzionasse.  Perché ciò risponde ad un bisogno essenziale: trovare il principio di quello che di volta in volta sperimentiamo, fino a capire se ci sia e quale sia il principio originario di tutto.

Ad esprimere bene questa esigenza è la filosofia, sia quella occidentale, sia quella orientale, della quale, tuttavia, in queste righe non mi occupo. Nata sulle sponde dell’odierna Turchia, a Mileto, colonia greca, snodo di scambi commerciali e incroci etnici e culturali, la filosofia, fin dal VII secolo a. C. – almeno stando a quanto finora ne sappiamo – si è posta questa domanda:

qual è l’arché della physis? Intendiamoci sulle parole, prima di tutto.

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Physis, da cui la nostra parola fisica, allora non significava quello che appunto intende significare in età moderna il nostro termine fisica, cioè qualcosa di tangibile contrapposto a ciò che è intangibile, per cui si è coniata la coppia fisica e metafisica, alla quale si sono poi accompagnate altre coppie, come materiale e immateriale, concreto e astratto, empirico e spirituale, e via dicendo. Per i Milesi, e fino al IV secolo a. C, la physis era il vocabolo che indicava la totalità. Ma il termine totalità è piuttosto impegnativo, perché siamo abituati a pensare per lo più attraverso coppie contrapposte, cioè in modo dicotomico.

Per tante ragioni, addirittura di tipo psicologico: sapere che le cose stanno in due soli modi, ci dà sicurezza. Invece, dire che tutto (il bello e il brutto, il buono e il cattivo, il piccolo e il grande, il bianco e il nero, l’astratto e il concreto, il limite e l’illimitato, le cose banali – Socrate diceva addirittura il pelo di barba – e le cose elevate) appartiene ad un unico contesto, non è così immediato perché ci toglie il limite che, nonostante il nostro recalcitrare di fronte ai vincoli, ci dà sicurezza.

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Ricordo la mia prima esperienza nelle “Prairies”, le immense praterie canadesi tra il Manitoba e il Saskatchewan, che si allargavano sempre più fra campi di grano e colza, solcate di tanto in tanto da qualche convoglio merci ferroviario, formato da non meno di 120 vagoni (li ho contati attentamente!). Lì mi sentivo spaesato, smarrito, senza punti di riferimento; lì, come direbbe Leopardi, “per poco il cor non si spaura”, mentre qui in Italia ho la fortuna di vivere in una piccola campagna chiusa dalla meravigliosa corona delle Prealpi venete che, pur limitando il mio sguardo, mi fanno sentire a casa. Qui mi sento avvolto, abbracciato e perciò protetto. È il duplice volto del limite: chiudere e proteggere. E questo ci riporta allo stato prenatale, dove siamo stati a nostro agio per nove mesi.

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A meno che non sappiamo compiere un salto veramente ardito: vivere “nella” totalità, sentendoci da questa “abbracciati”, come scrisse il mio grande maestro Karl Jaspers che, da medico e psicopatologo e finalmente filosofo, ha lungamente meditato sulla totalità come “Umgreifende”, onniavvolgente. Ma allora, egli dice, non possiamo pretendere di dimostrare questa totalità, di spiegarla come sappiamo spiegare un fenomeno fisico; ad essa dobbiamo rivolgerci attraverso alcune “cifre”, cioè indizi, allusioni, rimbalzi.

E così si apre lo spazio alla Poesia, alla Mistica, all’Estetica, alla Fede, perfino alla fede filosofica (titolo di una grande opera di Jaspers), cosa che di per sé parrebbe una contraddizione in termini, sulla quale ho tentato di cimentarmi a partire dalla mia tesi di laurea. Ma poi la situazione si complica, se introduciamo il secondo termine, Arché. Per assonanza, siamo rimandati ad arcaico, cioè vecchio, vetusto, trapassato e quindi inutile. Invece il senso corretto e profondo è fondamento. Quindi domandarsi, come fa la filosofia, quale sia l’arché della physis, significa domandarsi quale sia il fondamento della totalità.

Di quale fondamento andiamo alla ricerca? Di un fondamento a sua volta non-fondato, ma non perché sia infondato, bensì perché è autofondantesi. Il che significa che la totalità deve avere il fondamento in se stessa o, come diceva il filosofo italiano Giovanni Gentile (che meriterebbe maggiore considerazione, potendo disgiungerlo dalla sua appartenenza al ventennio fascista, che ha pagato con la morte), deve essere autoctisi. Ma, allora, su che cosa si regge ciò che deve reggere tutto? Bella questione!

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Giovanni Gentile

Volendo semplificare, le risposte date dal pensiero filosofico negli ultimi ventisette secoli si possono raggruppare in due categorie: i pluralisti e i monisti. Per i primi esistono più elementi che spiegano la base della totalità, come acqua, aria, terra, fuoco e altre radici (rizomata in greco). Per i secondi, esiste un solo principio, che non può essere identificato con niente di specifico e che per questo si chiama “indeterminato” (in greco àpeiron).

E qui apriti cielo! Ciò che a noi interessa al momento è capire come e se, alla fine della discussione, si sia raggiunto un accordo. Pare proprio di sì. Comunque si voglia chiamare, il fondamento non è una realtà semplice, bensì qualcosa di complesso; meglio, non è un elemento primo inscindibile, ma una struttura. Lo ha dimostrato anche la fisica: l’atomo, a dispetto del suo etimo (come aveva proposto Democrito), è scindibilissimo, eccome!

Struttura significa che vi è qualcosa costituito da vari elementi, che non possono sussistere se non nella necessaria relazione tra di loro. Quindi potremmo dire che al fondo di tutto esiste la Relazione o, come preferisco, la Comunità. E qui sono in buona compagnia di alcune scienze, come la già menzionata Fisica e la Biologia, argomenti sui quali altri assai meglio di me possono dire la loro.

Da parte mia vorrei ricordare una speciale comunità, quella ebraico-biblico-cristiana: la Trinità. Il cristianesimo, derivato dall’Ebraismo biblico, non è una religione monoteista, come spesso si dice e si insegna, bensì una religione trinitarista, o, più semplicemente, comunitaria. Riunendo i punti del disegno, che fino a qui sono venuto tracciando, possiamo dire che l’arché della physis è la struttura, ovvero la comunità. In principio sta la Relazione. Ecco come, a mio modesto avviso, si giustifica la visione olistica del tutto.

Come dicevano i filosofi umanisti, natura non facit saltus: tutto si tiene.

Ma, dunque, la relazione che cos’è?

Le prossime riflessioni tenteranno di gettare un po’ di luce su questo aspetto.

Lino Sartori

Filosofo Biorisonante


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